Appena tornati dall’Africa il vuoto lasciato dalla forza del distacco appare davvero incolmabile.
Perché un viaggio in Africa non è solamente l’insieme delle meraviglie naturali che si andranno a visitare, ma si compone principalmente di una totale e forzata immersione in una dimensione diametralmente opposta a quella che caratterizza la nostra quotidianità.
Perché in Africa ci si sveglia insieme al sole; perché in Africa quando è buio è buio.
Perché non si può pretendere di programmare con troppo anticipo uno spostamento, perché in Africa non si sa mai quando si arriva.
Perché la diffusione delle informazioni tramite la rete sembra latente, ma solo perché qua con due parole è possibile risolvere tutto.
Insomma, essersi nutriti di Africa per un mese ha certo determinato una assimilazione di ritmi ed abitudini che non possono essere rimossi semplicemente dall’apertura della porta della propria casa.
E sta esattamente qui il succo, il senso del viaggio, che mai come in questa occasione, pur nell’ostilità dei pronostici, ha di gran lunga superato quelle che potevano essere le aspettative: praticamente nessun tipo di inconveniente, nessun assai temuto problema di salute e persino più facilità del previsto nell’organizzazione degli spostamenti e degli alloggi.
Non so se effettivamente si possa credere che esista il mal d’Africa, ma certo è che un lungo viaggio nel continente nero non può lasciare indifferente nessuno.
Doveroso, a questo punto, è però un passo indietro, a quando ancora l’idea di attraversare l’Africa meridionale dall’oceano Indiano a quello Atlantico nemmeno solleticava la nostra immaginazione.
Dopo tanti anni di viaggi nei diversi continenti, avevo iniziato a pensare che quel vuoto ancora presente sul mio planisfero doveva essere, prima o poi, colmato: non ero infatti mai stato nel continente nero e, in effetti, nemmeno ero mai stato realmente tentato di andarci. Ma quest’anno sì, era quello buono, ormai era giunta l’ora di tentare l’avventura più grossa, quella consistente nel viaggiare attraverso l’Africa solo via terra e solo tramite l’utilizzo di mezzi di trasporto locali. Dopotutto ogni viaggio che ho fatto con i miei fidati compagni di avventura è sempre stato on the road: solo in questo modo è possibile addentrarsi per davvero nella cultura locale, negli usi e nelle abitudini.
Parlare e mangiare con la gente.
Insomma, conoscere davvero un popolo.
Si parla di viaggio dopotutto, non di vacanza.
Il problema dell’Africa, motivo per cui per tanti anni ogni ipotesi ad essa relativa era stata accantonata,è quello della difficoltà nella gestione degli spostamenti su vasta scala. Poche sono le linee ferroviarie utilizzabili: quelle più importanti sono pure assai inaffidabili. Disastrata pure la rete stradale e complicata la gestione del piano del viaggio.
Dopo diverse riflessioni e letture sopraggiungeva fortunatamente un aiuto inaspettato: alla disperata ricerca di soluzioni per la gestione del viaggio, mi imbattevo nella descrizione di un percorso che da Dar Es Salaam, maggiore porto della Tanzania, si srotolava arditamente fino alle selvagge province del nord dello Zambia, per poi allungarsi, cogliendo anche l’immenso frastuono delle cascate Vittoria, fino alla punta più meridionale del continente, occupata dalle brulicanti strade di Città del Capo.
Il nome del percorso era “The Pride of Africa”: era questo il viaggio che sognavo.
Trovata la via da seguire, era giunta l’ora di capire esattamente dove questa rotta ci avrebbe condotto e in quale modo sarebbe stato possibile percorrerla.
Il grande antipasto per questa avventura ci veniva offerto su un piatto di argento dalla Tazara Railway, una storica linea ferroviaria costruita dai Cinesi negli anni ’70 con il visionario intento di unire gli altipiani dello Zambia con il maggiore porto africano sull’Oceano Indiano, Dar Es Salaam.
In un viaggio del genere l’enorme opportunità di essere traghettati per ben 1.800 Km dallo stesso mezzo, senza necessità di organizzare continui e confusi scambi, non può essere assolutamente rifiutata, senza poi dimenticare che i paesaggi fantastici, i villaggi e gli animali ammirabili dal finestrino della propria cabina forniranno un senso ed uno scopo più che apprezzabile al tanto tempo trascorso sulla carrozza.
Non sarò certo il primo a sostenere che l’essenza del viaggio è il viaggio stesso.
Era insomma questo il primo passo da fare.
Alla partenza, la stazione di Dar es Salaam era incredibilmente gremita: il numero di bianchi si poteva contare sulle dita di una mano. L’emozione era tanta: si stava per affrontare un’esperienza del tutto nuova e sconosciuta.
Lo spirito era quello che può nascere soltanto dalla miscela di entusiasmo e timore.
Alle 13:40 il treno della Tazara partiva con imbarazzante puntualità.
Le carrozze erano vecchie, forse ormai antiche, sporche. La prima classe che occupavamo era la sola praticabile per un occidentale; le cabine erano da 4, il che forniva l’ulteriore brivido del toto–compagno ogni volta che qualcuno saliva a bordo del treno. La carrozza ristorante, opaca, scura e non esattamente pulita, oltre che fornire cibo, acqua e birre, offriva un continuo e spontaneo ritratto degli usi e della vita della popolazione locale. A parte la colazione, in tipico stile inglese, gli altri pasti prevedevano una pragmatica ed unica selezione: manzo o pollo e riso o ugali, un impasto di farina di mais ed acqua, in un qualche modo simile alla polenta bianca che si magia anche da noi. Le forchette non erano previste. Una ragazza, con un recipiente tra le mani, si avvicinava al tavolo, le porgevi le mani e lei con una brocca versava acqua su di esse: ecco servite le posate.
Il pasto già di per sé di poco significato era pure in porzioni assolutamente misere. Non certo per caso.
Un pasto difficilmente costava più di 2 euro.
Tra incredibili paesaggi, giraffe galoppanti e qualche chiacchiera e qualche birra con i compagni di cabina, assai interessati allo scambio di pensieri e considerazioni con soggetti a loro quasi alieni, il tempo incedeva con marcia ben più rapida di quanto potesse immaginarsi.
La forte e stanca locomotiva, abbandonata la Tanzania, arrestava la sua marcia a Kapiri Mposhi nella Provincia Centrale dello Zambia dopo ben 60 ore di marcia ininterrotta. Era il momento di scendere dal treno.
Kapiri Mposhi è una piccola ed insignificante cittadina dello Zambia, che assuma un qualche rilievo nella propria provincia solamente grazie al passaggio di importanti linee di trasporto, come, appunto, la Tazara Railway. Non esiste alcun motivo per restarci.
Tutti coloro che giungono qui attraverso la rete ferroviaria hanno l’intento di raggiungere Lusaka, la capitale del paese, che dista poco più di 200 Km da questa cittadina. Per questa ragione, all’arrivo del treno, il piazzale della stazione è sempre presidiato da autisti, sia di taxi che di bus, che si offrono di accompagnarvi alla capitale.
Tuttavia, a causa di un ritardo di 12 ore da parte del nostro treno, scendevamo dai vagoni soltanto a mezzanotte e pertanto, consigliati in questo senso dalla maggior parte delle persone conosciute in viaggio, decidemmo di soggiornare a Kapiri Mposhi per evitare i rischi a cui il viaggiare di notte avrebbe potuto esporci.
Quasi tutto di un fiato, dopo una misera dormita ed un breve viaggio in corriera, entro l’ora di pranzo del giorno seguente eravamo già seduti nel cortile del nostro ostello di Lusaka.
Lusaka ,città piuttosto ordinata, con strade ampie e alti grattacieli, si potrebbe definire insignificante da un punto di vista turistico: non c’è alcunché di rilevante da visitare, non ha un particolare valore storico e non offre al visitatore scorci effettivamente suggestivi. Tuttavia una passeggiata per le sue strade permette di scoprire quali possano essere i veri caratteri di una metropoli africana.
Il pit stop a Lusaka dopo il lungo viaggio trascorso a bordo del treno ci offriva per la prima volta l’occasione di staccare un po’ la spina ed abbassare un po’ il ritmo, almeno per un paio di giorni.
Il passo successivo era di procedere verso sud utilizzando l’autobus: scelta obbligata, in Zambia il servizio ferroviario è inaffidabile nel senso più ampio del termine.
Il rumore dei motori e la puzza di benzina già di prima mattina infestavano la stazione dei bus di Lusaka, squarciando quel velo di calma che era sceso su di noi durante la permanenza nel nostro silenzioso e pulito ostello; era il momento di prendere l’autobus che in 9 ore ci avrebbe portati fino al Livingstone, ai confini con lo Zimbabwe.
In confronto al treno la corriera appare quasi un mezzo di lusso e, soprattutto, corre con allarmante puntualità, elemento di assoluto pregio in Africa: non a caso il prezzo è piuttosto elevato per gli standard locali, arrivando a costare anche il doppio rispetto al treno.
Livingstone, che prende il nome dal grande esploratore che per primo nel 1855 poté ammirare il meraviglioso spettacolo fornito dalle cascate Vittoria, deve alla vicinanza alle stesse la sua vocazione turistica. Questa meraviglia della natura, Mosi oa Tunya (fumo che tuona), ribattezzata con il nome con cui la conosciamo oggi proprio dall’esploratore scozzese in omaggio dell’allora Regina d’Inghilterra, richiamano infatti un impressionante numero di turisti da ogni parte del mondo.
E ciò è assolutamente ovvio. Lapalissiano.
Lo spettacolo offerto dalle cascate è veramente impressionante: una gola di roccia nera profonda mediamente oltre 100 metri nella quale si riversa con impeto e violenza il fiume Zambesi, provocando un frastuono udibile a parecchia distanza.
La visita delle cascate Vittoria è davvero unica ed indimenticabile.
Il parco in cui sono racchiuse si compone di due parti, una in Zambia ed una in Zimbabwe: neanche a dirlo è più che consigliato visitare entrambe le sponde, poiché ogni singolo e diverso punto di vista sulle stesse è in grado di essere da solo suggestivo e speciale.
Sul versante in Zimbabwe il punto di riferimento per l’accoglienza dei turisti è il piccolissimo centro che, non a caso, porta il nome delle cascate stesse: la città di Victoria Falls è infatti un piccolo paese a meno di un Km dall’ingresso del parco, di chiara vocazione turistica, pieno di ristoranti e bar, dove decisamente si può passare una serata divertente, dimenticando le costrizioni che generalmente limitano la vita serale nei paesi africani.
E in un viaggio come questo ogni pur minima opportunità di lasciarsi un po’ andare non va mai fatta scappare.
Dopo le cascate Vittoria il percorso prevedeva di tagliare lo Zimbabwe verso sud-est, sostando a Bulawayo, antica capitale della Rhodesia, con lo scopo di farvi un breve scalo ed immetterci nella rotta che ci avrebbe poi condotto in Sud Africa.
A spuntarla, questa volta, era ancora il treno.
Esiste infatti un collegamento addirittura giornaliero dalla città di Victoria Falls che, in una notte e poco più, conduce direttamente a Bulawayo. Il prezzo era assolutamente vantaggioso e rispetto al bus, di qualche ora più rapido ma che viaggiava di giorno, permetteva di ottimizzare i tempi sfruttando la notte per il viaggio.
Anche in questa circostanza la prima classa è l’unica idea che dovrete avere al momento dell’acquisto dei biglietti.
A differenza del treno Tazara, questo dello Zimbabwe era assolutamente desolato, rendendo di fatto il contesto più cupo e spettrale di quanto già non fosse: di certo contribuiva a fornire questa sensazione la struttura stessa del vagone in cui trovavamo. Le carrozze erano infatti dei primi del 900, senza dubbio al tempo di grande pregio, ma probabilmente mai ritoccate, pulite o in un qualsiasi modo migliorate.
L’atmosfera, unita all’area gelida che spifferava dal finestrino, dava un tono decisamente macabro alla situazione.
Tuttavia, a parte la bassissima temperatura raggiunta durante a notte, il mattino seguente, dopo una bella dormita e con poche ore di ritardo, si giungeva finalmente a Bulawayo.
Ben al di là delle modestissime aspettative, la grande città di Bulawayo appare, già al primo sguardo all’uscita della elegante stazione ferroviaria, un luogo interessante. Le grandi vie che si tagliano ad angolo retto determinano un senso di ordine del tutto estraneo ad ogni grande città africana e la raffinatezza degli edifici che le circondano riportano alla mente i tempi in cui questa città, tra le più antiche del paese, era il prolifico centro economico ed amministrativo dello Zimbabwe.
La sosta a Bulawayo, programmata al solo scopo di agganciare la rotta degli autobus che si dirige verso il nord del Sud Africa, si è tuttavia rivelata sia riposante che piacevole, probabilmente anche grazie allo splendido lodge che ci ospitava, senza alcun dubbio il migliore fino a quel punto della vacanza.
Il giorno successivo, a metà pomeriggio, era nuovamente l’ora di salire su di un mezzo di trasporto e, ahimè, per altre 14 ore. In questo caso, tuttavia, la consapevolezza che all’arrivo a Pretoria saremmo stati accolti da una dimensione sociale ed urbana assai più conforme ai nostri standard europei, ci riempiva di un’aspettativa tale da far passare in secondo piano la lunghezza del viaggio in bus.
L’immaginazione trovava in questo caso autentico ritratto nella realtà: il Sud Africa è davvero un mondo del tutto diverso rispetto ad ogni altro paese africano. Se non fosse per i grossi problemi di criminalità che affliggono le maggiori città e per il rovesciato rapporto tra bianchi e neri, potreste senza alcuno sforzo pensare di trovarvi nell’Europa settentrionale.
Pretoria è una città che merita assolutamente una visita. Punto di riferimento della vasta area metropolitana che forma insieme a Johannesburg, la città è una delle tre capitali del paese. Gli edifici del centro, di matrice olandese ed inglese, le conferiscono un appeal decisamente elegante e tranquillo: l’enorme complesso degli Union Building, che sovrasta la città dall’alto del colle posto alle spalle dell’alta statua di Nelson Mandela, ricordano al visitatore quanto sia densa e pregna di eventi la storia Sudafricana più recente.
Degna di nota è la vita notturna della città: certo la percezione del divertimento da parte mia era stata alterata dal lungo periodo vissuto all’insegna dei ritmi del sole, ma sicuramente non penso di esagerare dicendo che a Pretoria è possibile divertirsi senza alcun problema o preoccupazione fino a tarda notte. In particolare, il vibrante quartiere di Hatfield, nel lato orientale della capitale, è il posto verso cui dirigersi per essere sicuri di non ciccare. In questa zona ha infatti sede la città universitaria e pertanto bar, ristoranti o club sono brulicanti di studenti di ogni provenienza assolutamente propensi a passare tutto il loro tempo libero davanti ad una birra ghiacciata.
Avendo tempo a disposizione da spendere nella regione del Gauteng (quella di Pretoria e Johannesburg), è assolutamente consigliata una gita la township di Soweto, cuore pulsante della cultura sudafricana ed incubatrice delle più importanti proteste e rivolte che hanno spinto il paese all’abolizione dell’apartheid nel 1991.
La visita non può essere fatta da soli, ma ogni albergo, ostello o agenzia del posto sarà in grado di mettervi nelle condizioni di accedere alla township con una guida locale capace di condurvi con assoluta sicurezza in ogni dove abbia significato recarsi.
Dalla regione più importante del paese il passo successivo sarebbe stato quello di prendere una macchina a noleggio per recarsi nelle incontaminate terre del nord est, ai confini con il Mozambico: motivo dalla visita il safari nel magnifico Kruger Park e l’esplorazione dell’incredibile Blyde River Canyon, terzo più grande al mondo, percorrendo la famosissima Panorama Route.
Guidare in Sud Africa è assolutamente consigliato: le strade sono modernissime, ampie ed in perfette condizioni, la benzina è abbastanza economica ed il traffico non è mai intenso come nel nostro paese. L’unico inconveniente, per noi italiani e per tutti i non anglosassoni, è la guida dal lato opposto. La vostra mente avrà sicuramente bisogno di un minimo rodaggio anche solo per evitare di accendere i tergicristalli anziché mettere la freccia ogni volta che avrete intenzione di svoltare.
Il parco Kruger offre l’opportunità di vedere così tanti animali esotici da arrivare annoiati alla fine della giornata. Lo spettacolo nell’ammirare nel loro habitat tutti quegli animali visti soltanto nei documentari in televisione è davvero indescrivibile ed impressionante: le dimensioni dei grandi mammiferi sono davvero ben al di là di quelle immaginabili prima della partenza.
La visita del parco richiede necessariamente tanto tempo: la velocità imposta è sempre inferiore ai 30 Km/h o, al massimo, ai 50 Km/h e le distanze da percorrere sono comunque enormi; il parco ha un estensione all’incirca pari a quella del Veneto.
Fondamentale è quindi avere le idee chiare sul percorso da fare e sugli orari in cui muoversi: un minimo errore su questi punti può compromettere la riuscita del safari.
La stagione secca, la nostra estiva, è senza dubbio la migliore per gli avvistamenti degli animali: obbligatorio è recarsi al parco con le prime luci del’alba, poiché nel pomeriggio, almeno fin verso il tramonto, è molto più difficile vedere gli animali.
Altra ottima dritta è quella di percorrere le sponde dei fiumi nella fascia oraria che va dalle 11 alle 12: è in quel momento che con puntualità svizzera tutti i grandi mammiferi vanno ad abbeverarsi.
La mia esperienza si è basata sulla visita dell’area più meridionale del parco, intorno alla valle del fiume Sabie: è questa la zona più densa di animali durante la stagione secca. Sono stati percorsi circa 300 Km in una decina di ore di macchina; l’idea di tornare anche la giornata successiva è stata accantonata al termine del tour. Può sembrare assurdo, ma il numero esagerato di avvistamenti fatti, farà davvero apparire superfluo ripetere la lunga esperienza anche il giorno successivo. Ad ogni modo, a ciascuno il suo, abbiamo
conosciuto persone che hanno speso nel parco anche una settimana mantenendo ogni giorno un entusiasmo da esordio.
Si giungeva così al capitolo finale del viaggio: l’ultimo segmento prevedeva un treno di circa 26 ore da Johannesburg per Cape Town per gli ultimi quattro giorni di soggiorno nel continente africano.
Rispetto ai treni presi in precedenza lo Shosholoza Train ci apparve subito come un treno di lusso: intendiamoci, niente di paragonabile ad una Freccia Rossa o simili, ma senza dubbio dopo i treni utilizzati in Tanzania, Zambia e Zimbabwe, il servizio offerto dalle ferrovie sudafricane poteva considerarsi praticamente impeccabile.
Per non violare le regole della tradizione africana, anche questo treno arrivava a Cape Town con 4 ore di ritardo, così regalandoci un altro arrivo ben oltre il tramonto del sole.
Fortunatamente Cape Town ha caratteri assai diversi rispetto ad ogni altra metropoli africana visitata: la criminalità non è esasperante, specie nell’area turistica centrale, la struttura della città è in tutto e per tutto europea e, anche di notte, è possibile incrociare per le strade altri turisti in cerca di una birreria o di qualcosa da mangiare. Insomma, non dimenticandosi che ci si trova pur sempre in Africa, la città più meridionale del continente ci offriva la prima occasione per un turismo quasi classico e rilassato.
Oltre a tutto ciò, fondamentale è dire che Cape Town è davvero una città spettacolare. Per certi versi il suo panorama ricorda quello di Rio: il blu intenso dell’Oceano Atlantico che bagna entrambe, il verde intenso delle montagne che in modo sorprendente racchiudono l’ampio golfo su cui si ergono le grosse gru del porto e quell’aria fresca e pulita che costantemente la batte, rendono la più importante delle tre capitali sudafricane un luogo dai caratteri unici e rari.
Assolutamente irrinunciabile è l’ascesa alla sommità delle Table Mountain, che può essere fatta sia a piedi che tramite la turistica Cable Car, che collega la periferia di Cape Town alla cima delle montagne (circa 1000 m). La cosa più impressionante è l’aspetto delle stesse che, per effetto dell’antichissima origine, si presentano del tutto piatte a dispetto di ogni classica immagine che abbiamo della sommità dei monti.
Dal punto più alto, raggiungibile in circa un’ora di camminata dal punto di arrivo della funivia, è possibile godersi, nella più totale quiete, lo stupendo panorama che regala la vista della penisola del Capo di Buona Speranza che, avvolta dalle nubi incessantemente spinte dal vento, si allunga verso sud lasciando spazio all’immensa distesa di acque che separa l’Africa dall’Antartide.
Vale di certo una visita anche il Waterfront, quartiere elegante sorto sulle ceneri del vecchio porto, mentre, se il vostro obiettivo è quello di immergervi nella vita locale, conoscere persone e con esse lasciarvi andare ad una bella serata, il posto giusto è Long Street, incontrastato epicentro della movida cittadina.
Termina qui il mio viaggio e con esso il mio racconto.
La volontà di scrivere alcuni pochi pensieri che racchiudessero un’esperienza enorme, immensa nasce dalla speranza di ispirare qualche altro viaggiatore che, come me, potrebbe sentire il bisogno di lasciarsi completamente andare al selvaggio, alla disorganizzazione ed alla meraviglia del senso di libertà che da esse discende: insomma, all’avventura!
Buon viaggio e buona Africa.
Grazie a MATTEO DORELLO
che collabora con me e continua a raccontarci le sue avventure mozzafiato.