Le arance, appese tra il fogliame dei tozzi alberi, brillavano fosforescenti riflettendo le ultime luci di quel lungo giorno. Era come se l’inclinazione della terra fungesse da lente, incanalando, come un caledoscopio, il crepuscolo tra i pori arancioni.
L’atmosfera voleva premiarle. Immersi insieme nel silenzio più solenne dei miei brevi diciannove anni, quelle arance, luminose come bottoni elettrificati sulla pelliccia del più scuro degli orsi, quasi emettevano suoni, canti, inviti, felicitazioni, necrologi di gente famosa alla Radio. Avevamo viaggiato sette ore per arrivare fin lì. Ma dov’era esattamente ? Qualcuno aveva mai calpestato la mia stessa collinetta di terra rossa, ammorbidita e spelacchiata dalle graminacee?
Era forse il sangue di qualche precedente avventore che, filtrando tra i vergini granelli inabitati, aveva regalato loro quel pigmento indelebile, quello che caratterizza queste terre? O era forse il mio?
Eravamo solo io ed un paio di frenetici formicai colorati allo stesso modo. Era stato così per le ultime ore.
Poco prima di raggiungere il punto di non ritorno, appoggiato a quello che un tempo doveva essere un albero rigoglioso e maestoso, vi era un cartello in plastica sgualcita che recitava: “last Gas in 1 km, then you’ll have no more for 3 hours – NSW Police Department, Australia”.
Dopo essermelo lasciato alle spalle da 50 minuti, realizzai che non si trattasse solo di un’intelligente trovata pubblicitaria.
La linea di mezzeria lavorata e usurata dal tempo continuava a consumarsi sotto al cofano della macchina a noleggio, mentre, come un Tapis Roulant, incessante si rigenerava dalla impercettibile linea dell’orizzonte, che viaggiava perpendicolare alla nostra meta. Era curioso pensare che fosse lo stesso orizzonte che attraversava la vista della mia camera a casa, anche in quel preciso momento, lontana sedicimila chilometri.
Per la prima volta non mi sentii così lontano. Per tre ore di viaggio, il niente, l’annullamento di ogni artificialità, fu ciò che correva al passo delle nostre ruote cupe. Non una macchina, non una stazione di servizio nè un palo della luce, non un camionista immerso in qualche pausa sigaretta. Il sole accecava qualche strato di nuvole troppo geloso per condividerlo con noi.
La pioggia minacciava, ed in fondo, era meglio così.
Il secco e disabitato deserto sapeva essere davvero crudele e disinteressato quando il suo sole penetrava il metallo del tettuccio e l’aria condizionata.
Animi freddi tra i ribollenti fili d’erba secchi che, dopo essere nati nel più inospitale delle lande assolate, su Marte, non avevano più trovato il coraggio di resistere loro, invecchiando prematuramente ed inchinandosi al loro sferico Dio, che amava tanto questa terra, come girasoli in preda ad una notte perenne. Il pedaggio era troppo costoso, e spesso i più poveri e meno forti non potevano nemmeno permettersi di attraversare il ponte verso il centro, verso le luci, i palazzi di mattoni i cui angoli erano celati da grezze lamiere inchiodate, le finestre a specchio e gli elicotteri che vi si riflettevano, in trappola come mosche davanti ad una vetrina, sognando di uscire, sognando la libertà, entrando nella prossima gabbia.
Le ore passavano, le ruote si consumavano e scioglieveno quasi percettibilmente sull’asfalto invecchiato ed evaporante, mentre sembrava che tutto il niente che ci stava intorno avesse riempito la mia mente. Da fuori, i chilometri di verticale cemento armato, le barche appoggiate sul confine tra oceano e cielo, gli ideogrammi illuminati dai neon, le posate sporche ed i letti a castello, sembrava avessero trovato la fenditoia d’accesso al mio interno, lasciando alle loro spalle solamente sconfinate distese di arido, ventoso, arrabbiato, disilluso e dimenticato terriccio rossastro.
Anche il tramonto ricongiunse i due lembi del sipario, lasciando rispettosamente, con un inchino, il posto alla più magica delle arie, la degna conclusione dell’opera della vita ultraterrena. Il pubblico era ben riscaldato e, tra gli applausi scroscianti del riempimento dell’anima, la notte non avrebbe potuto fare più bella figura.
Anche le arance cominciavano a spegnersi, come fuochi fatui che trovano la propria pace tra il tepore delle foglie scure, che come piccole amache incantate, si addormentavano sulla corteccia fragrante.
Il silenzio non cessò, e nessun rumore poteva essere reale o riconoscibile, in tale perfetta oscurità. I muggiti trasportati dal vento sembravano appartenere ad un altro universo, quasi parendo una lingua non terrestre, impraticabile, impercettibile.
Come grilli, come formiche, come ragni, come arance.
La notte adagiò il suo velo definitivo su tutti i suoi protetti, intoccabile, inarrestabile.
E con lui, la pioggia. Così perfetta anche lei, tanto da perdonarla per separarmi dall’immacolato cielo stellato.
Nell’annullamento di ogni suono e gioco umano, rincalzai la cintura, e lasciai due impronte nella fanghiglia, creata dal matrimonio tra la sabbia, che evaporava verso l’alto, e la pioggia che raggiungendola dall’etere, la baciava.
La gravità stipulava l’eterno patto.
Mi riavviai a passo devoto verso la macchina a noleggio.
SCRITTO DA
FRANCESCO CAVANI
direttamente da Griffith, Outback dello stato del New South Wales